12/09/2016
Quante volte abbiamo sentito, e magari ripetuto, che un’immagine vale più di mille parole? Su questo assunto anche il mondo della pubblicità ci marcia parecchio, elaborando fino alle massime iperboli le immagini che accompagnano un prodotto. Ma l’Università Corvinus di Budapest ha svolto delle ricerche che pare smontino queste affermazioni, almeno per quanto riguarda il campo alimentare e specificatamente nell’abbigliaggio. Il packaging in poche parole, che è poi anche uno degli esercizi più “impegnativi” in cui si cimentano creativi, grafici, esperti di cromie, semiologi, … eserciti di persone dedite a far sembrare un alimento qualcosa d’altro.La nota che arriva dall’Est afferma che le persone si soffermano, molto più di quanto credono le aziende e le agenzie, nel controllare i testi che descrivono le proprietà di un alimento.Pare che questo avvenga soprattutto nel caso in cui chi è già orientato verso un tipo di acquisto alimentare, soprattutto di tipo salutista, cerchi la conferma o il conforto che nei testi che accompagnano l’immagine vi sia presente una promessa, un dato o un ingrediente “di quelli adatti a soddisfare la sua esigenza”. Direi che si tratta di una “scoperta” che non mi sorprende, ma questo solo in stretta relazione al fatto che personalmente, da sempre, controllo gli ingredienti, la provenienza e le affermazioni stampate sulle confezioni di ciò che compro. E questo non solo quando si tratta di alimenti. Devo anche ammettere che tutte le notizie che possiamo raggiungere (una volta ci raggiungevano loro, ma ora c’è internet) sulle cattive pratiche o sugli incidenti industriali che troviamo largamente documentati anche grazie ai motori di ricerca, ormai da tempo hanno contribuito a rendermi diffidente anche su quanto trovo scritto. Perché ahimè puoi scrivere quello che vuoi su una confezione, ma da qui a che io creda che non mi stai mentendo o nascondendo qualcosa … ne passa. Mi direte che le leggi, le normative e ogni altra formula che dovrebbero garantire la mia salute o la mia buonafede da truffe, raggiri, contraffazioni o adulterazioni … dovrebbero bastarmi a farmi stare tranquillo. A fidarmi. Ma purtroppo no e non perché io sia un ipocondriaco, ma semplicemente perché gli ingredienti dei quali non so nulla sono le persone che dirigono le aziende e ne determinano quelle che “loro” chiamano strategie, soprattutto quelle alimentari. Pensando a questo tipo di “ingredienti” faccio da tempo ricerche sui vari personaggi che passano a dirigere o ad amministrare un’azienda diversa ogni due anni circa (si certo ci sono le eccezioni … ma oggi questa è quasi una prassi), persone che passano dalle lampadine agli alcolici, dai biscotti alle aspirine, dall’olio agli shampoo … senza fare una piega. Risanano (lasciano a casa), ristrutturano (chiudono stabilimenti), chiacchierano di numeri e poco di persone … chiedono che la pubblicità mentre ci sono loro sia popolata da testimonial famosi, che magari impongono, per i cui cachet non fanno obiezioni … e poi cambiano azienda con buone uscite sempre troppo generose e svincolate dai risultati … e chi s’è visto s’è visto. E non vi sembra normale che ti venga da chiederti se quello stile lo applicano anche alla qualità dei prodotti dell’azienda? Visto quello che dice l’Università dell’EST e viste certe pratiche, proporrei quindi che sulle confezioni, soprattutto dei prodotti alimentari, si prendesse l’abitudine a mettere la foto dei “board” delle aziende con un loro curriculum. A qualcuno passerebbe la fame.
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis
Fondatore del Laboratorio per la realizzazione del Linguaggio universale non verbale