06/07/2015
Che differenza passa fra, che so, impegnarsi nell’ideare e produrre un pupazzetto da inserire in un ovetto di cioccolato e impegnarsi nel progettare un intervento socialmente utile?
Il primo è considerato un lavoro mentre il secondo no. Uno appartiene alla “produzione di beni” mentre l’altro è la dimostrazione di una forma di cura per l’altro. Di uno va lungamente spiegata l’utilità mentre l’altro è una cristallina evidenza di utilità. Il primo non è legato ad un’esigenza reale, il secondo certamente sì. Uno richiede “pensiero artificiale”, risorse e particolari energie per assumere un senso, l’altro è senza dubbio un atto di buon senso naturale.
Insomma si tratta di due cose assolutamente distanti e difficili da mettere a confronto, ma se vogliamo parlare di crescita vera e possibile è di questi paragoni – a mio parere – che dobbiamo parlare. Arrivo quindi al perché di questo paragone fatto in un contesto come quello della pubblicità. C’entra l’etica ovviamente.
Aziende e agenzie di pubblicità sono popolate da persone che spesso ritengono sia loro compito inventare modalità di relazione con il pubblico cui si rivolgono forzatamente fantasiose, oggettivamente irreali e inutili. Il motivo per cui questo avviene deriva da un’abitudine che alimenta se stessa e pare ormai sfuggito agli stessi autori e committenti. Il vuoto non può alimentare un contenuto. Non vorrei sembrare ovvio e tantomeno presuntuoso, ma va ricordato che al netto di ogni esoterica spiegazione dei vari deliri che vengono rappresentati in molte pubblicità, l’unico scopo di queste costose e impegnative rappresentazioni vorrebbe essere quello di creare attenzione, desiderio di acquisto, ricordo, fedeltà alla marca …
Che cosa spinge molti addetti ai lavori, interni ed esterni alle aziende, a dedicare la loro intelligenza nella produzione di siparietti ridicoli e quindi anche svilenti l’azienda che li paga? La risposta più ovvia e obiettiva ritengo sia “la mancanza di un vero controllo sull’etica dell’impiego delle risorse” o almeno “una forte disattenzione di chi licenzia certe cose”. L’ho scritto anche in un precedente articolo (Fiori di plastica): se quello che si cerca è l’attenzione, il ricordo, la fedeltà… si sappia che si possono produrre iniziative concrete e messaggi di grande utilità pubblica, anche firmandoli con la propria marca, facendosi guidare dalle reali necessità delle persone. Quelle necessità che nella lista delle priorità generalmente vengono molto prima del biscotto, del profumo, dell’auto … Si possono senza dubbio realizzare e comunicare progetti importanti, duraturi e davvero utili per arrivare a incidere laddove, per esempio, non arriva il cosiddetto “pubblico” e si può fare impiegando le risorse altrimenti destinate, oggi, a “TESTIMONIALizzare” insopportabilmente ogni marca. Certo, sono consapevole che per fare certe scelte servono onestà, lungimiranza, visione laterale e intelligenza ed è forse per la mancanza di questo che continuiamo ad assistere a siparietti e microsceneggiati che vorrebbero essere ironici e che invece alimentano costantemente l’analfabetismo di ritorno in cui è ormai immersa la nostra società di clienti e votanti. Siamo inoltre entrati nella tipica fase estiva di immobilizzo del pensiero in cui periodicamente il nostro Paese tutto si ferma per almeno un paio di mesi lasciando che il nulla avanzi e si prenda altro spazio.
La nostra società in crisi sarebbe – ed è – piena di “opportunità” per fare la differenza. Ma per vederle ed agire di conseguenza è necessario avere la mente sgombra dalle sciocche abitudini che ci trattengono dal crescere. Crescere attraverso progetti che possono produrre radici sane e profonde nella coscienza delle persone raggiunte, che appartengono comunque ad una rete di relazioni più grande, offrendo la possibilità alle aziende di costruire una loro propria indiscutibile reputazione sulla quale costruire ogni passo ulteriore di avvicinamento ad una politica si commerciale, ma attenta alla cura del benessere del proprio “cliente” a prescindere dal proprio prodotto. Possiamo ancora crescere, ma dobbiamo ancora crescere.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis