21/10/2019
È vero che l’impresa, per potersi permettere, oltre alla propria continuità, anche investimenti di vario tipo, deve garantire per la sua stessa vitalità una certa salute finanziaria e produrre reddito. Senza salute finanziaria gli investimenti non si possono fare. Sviluppo, ricerca, continuità e innovazione sono infatti possibili solo se l’azienda riesce a produrre e a vendere i suoi prodotti. Ma cosa e come lo fa … fa la differenza. Se questi prodotti e il margine di cui l’azienda si nutre non nascono infatti da un “dna etico” e non sono coerenti con la sostenibilità e la responsabilità di cui certi imprenditori si gonfiano solo le guance, allora cari miei, quando si parla di responsabilità sociale di un’impresa è ovvio che si verifichino atteggiamenti che nulla hanno a che vedere con il significato del termine “responsabilità sociale”. Il problema di fondo è che il business (ma teniamo presente che dietro a questa parole ci sono solo persone) si è sempre nutrito di opportunità colte al volo o costruite ad hoc ed è abituato a leggere ogni scelta o decisione come occasione di una propria crescita economica, indipendentemente dalle conseguenze collaterali che questa comporta. Gli illuminati ci sono, rari, ma di loro si parla come casi eccezionali – quando se ne parla – e sono visti come degli ufo o dei modelli irraggiungibili o dotati di qualche gene folle chiamato “machiglielofafare”. Se le aziende (le persone) hanno come fine il puro business è ovvio che il loro orizzonte preveda semplicemente, ma ad ogni costo (!), di riuscire a produrre e a vendere. Ma se il loro fine fosse anche qualcosa di più completo e meno sterile, come per esempio la soddisfazione di un bisogno reale del loro pubblico, allora sarebbe per loro anche più facile lavorare affinché quel bisogno fosse soddisfatto nel modo più eticamente conveniente: non però la convenienza a senso unico verso l’azienda, ma la miglior combinazione possibile fra l’efficienza dell’impresa, la sostenibilità generale e l’accessibilità universale ai suoi prodotti. C’è chi fa questo, ma è difficile notarlo: sono quelle imprese che realizzano interventi “utili sul piano sociale”, che investono “anche” in attività utili in senso stretto, e non solo in forme di comunicazione fine a sé stessa o ai loro prodotti. Aziende che investono in attività che sono vicine alle necessità delle persone. Iniziative che “lasciano un segno durevole e utile nella società e nel mondo” e che quindi sono definibili come “investimenti per contribuire al benessere delle persone” anche senza che siano necessariamente coerenti con “la marca”. Anzi, meno appartengono alla missione aziendale più l’esempio è rilevante. L’arte del management di chi si trova a gestire un’azienda con una visione di questo tipo è quella di riuscire a mettere insieme responsabilità sociale cosciente e risultati commerciali. Oggi la stragrande maggioranza delle aziende che parlano di responsabilità sociale della loro impresa descrivono soprattutto le correzioni che applicano al loro precedente operato, senza considerare che quelle “correzioni” dovevano essere pensate come dei prerequisiti fin dal primo momento. Le iniziative che invece stabiliscono una presenza davvero responsabile sul piano sociale sono orientate a rendere evidente l’interesse aziendale per la società civile in generale, per agevolare la vita di tutti i giorni delle persone. Per fare un esempio, se un’azienda decide di organizzare e mantenere una mensa gratuita per un asilo, quello è certo un impegno indiscutibilmente utile che va segnalato, sottolineato e in qualche modo imitato. E sarà certamente un intervento più utile, duraturo e ben accolto di un effimero spot, perché sono attività che restano utili a lungo, facendone beneficiare le persone e la reputazione dell’azienda. Oggi aziende e agenzie dovrebbero assumere ruoli diversi dal passato (e dal presente), facilitando e rendendo contagiosala trasformazione delle imprese in “imprese etiche”, quelle cioè che agiscono e comunicano scelte di intervento sociale come alternativa ai vuoti commercial. E andrebbero stanati tutti quelli che invece parlano della responsabilità sociale come leva di marketing anziché come un prerequisito.
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis