04/12/2017
Il mondo della pubblicità è sempre animato da una forte spinta alla spettacolarizzazione dei lavori che produce. Una spinta che arriva dai fasti del passato e da una cultura però molto diversa. La chiamano ancora creatività. Ma è creatività? Serve? A cosa serve davvero? Serve ancora? Qualche risposta ci sarà e sono in molti quelli che riterranno di averne. Ma sono anche tanti coloro che a queste domande non credono sia opportuno dare riscontro, presumendo siano poco opportune (e certamente scomode). Sono osservazioni che danno infatti fastidio, soprattutto a chi gestisce certi budget affidatigli in modo, a mio vedere, sconsiderato, poco professionale e orientato allo spreco anziché all’obiettivo. Teatrini costruiti per soddisfare l’ego di qualcuno. Non è facile capire dove sia cominciata questa cosa dell’enfasi artificiosa da abbinare ad un prodotto che si presenta sulla scena. Resta che, nel tempo, molti hanno proseguito su questa via aggiungendo, forse senza neppure accorgersene, oggettiva distanza fra i prodotti e le ambientazioni che li ospitano negli spot. L’idea di sentirsi registi di qualcosa e il farsi prendere la mano perdendo il senso della misura, sono probabilmente collegati e si traducono in siparietti di 30’ (più o meno) che di fatto risultano né carne né pesce e che producono spesso un effetto anche di scarsa comprensione o difficile leggibilità degli intenti comunicativi, cosa che anche da sola dovrebbe dar da pensare. Ma raramente sentirete addetti ai lavori che ammettono di aver prodotto spot inutili, perché il creativo di oggi, quello moderno a tutti i costi, ha sempre un perché da opporre alle critiche. È un creativo in fondo. E “tu che creativo non sei” perché non appartieni all’autoproclamatasi casta, potresti anche sentirti incapace di giudicare nel modo giusto. Fa parte del gioco (solo se ci stai). Resta il fatto che la gran parte dei professionisti del settore si è appiattita sulla convinzione che un prodotto debba sedurre per farsi desiderare. E la seduzione è infatti l’effetto più ricercato, tramandato e argomentato da chi popola l’advertising e che vien dichiarato, ma (come accade per l’ironia) non lascia poi traccia effettiva. Forse non è un caso che i primi pubblicitari siano stati uomini, ma non è chiaro perché non invece le donne visto che la tecnica seduttiva vien da pensare sia mutuata proprio da quel mondo che, da secoli, si dimostra sensibile ed esperto nelle tecniche di abbellimento di sé e nell’arte della seduzione. “Supposizioni” direte, che derivano però da osservazioni puntuali. Le analogie e le concordanze sono troppe perché non sia fondato il pensiero che l’artificio sia uno degli strumenti più usati da chi desidera far percepire la propria realtà aumentandone artificialmente l’essenza. Tornando però alle ambientazioni degli spot, queste appaiono oggi protagoniste a scapito del prodotto che diventa quindi accessorio della vanità dei registi. Al punto che si potrebbe arrivare a stabilire che la creatività, nella pubblicità, ha assunto un significato diverso: “uno spot è tanto più definibile creativo quanto più serve creatività a chi lo vede, per collegare la scena illustrata al prodotto per cui è stata pensata”. In molti hanno proseguito in questi percorsi artificiali perdendovisi, affascinati dall’idea di essere registi e, più che creativi, creatori di modelli e di star perdendo il senso di un lavoro che potrebbe invece fare molto più di quanto dimostri di poter e saper fare. Uno sforzo legittimo, ma inutile quello dei creativi moderni, aspiranti Spielberg a caccia di “simil-Oscar”, che il comparto sforna generosamente (e a pagamento). Troppi pubblicitari che riescono a farsi assegnare un budget corposo, tendono a fare dei microfilm. Spesso davanti all’opportunità conquistata, una veloce autoanalisi li porta ad assumere i registi che vorrebbero imitare perché altrimenti non saprebbero come fare a imitarli. E capita allora che i due mondi, il cinema vero e la sua imitazione, si accorgono di non essere compatibili. Lo dimostrano i risultati ridicoli di spot da 30’, 60’, 90’ etc che vorrebbero essere cinema pur senza averne il senso. Ma per i soldi questo e altro. Questi microfilm sono spesso anche molto belli tecnicamente, ma motivati da cose che con il cinema hanno nulla a che vedere e che attribuiscono al prodotto cui devono l’esistenza deludenti e commercialmente pericolose overpromise.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis