22/10/2018
Mi perdonerà Primo Levi se prendo a prestito il titolo di una sua opera non certo paragonabile e di ben più alto spessore di questa mia paginetta sulle “miserie intellettuali” dei giorni nostri, ma l’ho trovato adeguato per la riflessione seguente … che un suo spessore però ce l’ha.
Non intendo discutere della politica di oggi, che lo meriterebbe perché di miserie ne ha un carico, non è questo il luogo. Mi concentrerò invece su quelle miserie espresse nel particolare contesto della comunicazione pubblicitaria che, ahimè, agisce sulle medesime persone su cui interviene la politica. Mi interessa far riflettere soprattutto su quanto avviene a carico della parte più debole e indifesa delle famiglie: i bambini. Che “uomini” sono, mi chiedo, coloro che usano le proprie conoscenze per entrare nella mente dei bambini, non per insegnargli qualcosa di utile, ma per “vendergli” qualcosa? È evidente, e risaputo da chi ci lavora, che la pubblicità agisce infatti usando una forma di marketing “specializzato” indirizzato ai bambini che, nei fatti, è una forma subliminale di raggiro di menti indifese e che per questo è da considerare un modello di “utilizzo del sapere” da mettere alla berlina e da vietare a priori. Certo ci sono i Codici di Autodisciplina e i Giurì, che però non riescono a prevenire gli istinti peggiori di chi, in nome del libero commercio e della libertà di espressione, ritiene sia sempre lecito qualunque mezzo per raggiungere il proprio fine.
Che persone sono coloro che utilizzano un determinato linguaggio, consapevoli che questo entra in contatto diretto con le menti dei bambini, pur sapendo che ancora non sono dotati di spirito critico e che la loro predisposizione è di assorbimento totale di ciò che li circonda? Che persone sono coloro che ritengono lecito plasmare gli orientamenti, le preferenze e le scelte d’acquisto di chi è ancora privo di “vaccini” contro le lusinghe e le tentazioni di chiunque?
Che persone sono quelle che mirano ai bambini per agire su di loro un effetto di imprinting della “marca”, sapendo che questo funzionerà come mezzo di fidelizzazione per quando saranno adulti?
Sono pubblicitari costoro? Sono direttori marketing? Tecnicamente sì, ma che persone sono intimamente se producono contenuti destinati ai bambini seguendo la logica perversa, riassumibile in pochi punti: fare in modo che i bambini facciano i capricci con i genitori per avere i prodotti pubblicizzati a loro destinati; trasformare i bambini in influenzatori delle scelte dei genitori anche su prodotti destinati alla famiglia (auto, telefonia, vacanze …) inserendo nelle pubblicità per gli adulti alcuni richiami che coinvolgano i bambini; creare un forte legame soprattutto con la marca (in sostanza fidelizzandoli subliminalmente) in modo da influenzarne le scelte quando diventeranno adulti. Per avere conferma di ciò basta osservare le pubblicità in circolazione, chiedendosi molti perché sulla presenza e l’uso dei bambini e di determinati dialoghi, musiche, grafiche …
I bambini, infatti, non si rendono conto dell’intento persuasivo implicito negli spot e ne seguono con fiducia ciò che interpretano come un diritto. E i genitori spesso diventano ai loro occhi degli ostacoli che si frappongono all’ottenimento di quel diritto rappresentato dai più svariati prodotti. E questa è un’interferenza intollerabile nel processo educativo che faticosamente la famiglia cerca di costruire quotidianamente per i propri figli. La ripetitività e l’onnipresenza degli spot si sommano alle tecniche comunicative con cui sono pensati, rendendo il messaggio commerciale un genere di informazione, nostro malgrado, formativa e che viene assorbita “totalmente” dai bambini per via della loro connaturata tendenza ad apprendere da ogni fonte. E quando questo avviene, e avviene costantemente, i modelli che gli vengono rappresentati diventano per loro “norme da seguire” che, essendo artificiali e non motivate se non al consumo di determinati marchi collegati a personaggi creati ad hoc, entrano nel loro quotidiano, destabilizzando i delicati equilibri che una famiglia di buon senso cerca invece di stabilire. Se tutto ciò nasce dagli intenti di professionisti della comunicazione, chiedersi “se questi sono uomini” diventa inevitabile.
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis