07/10/2019
Fra i vezzi del settore della pubblicità c’è quello di fare largo uso di inglesismi e di termini derivati direttamente dai manuali militari. Non è una novità e non è un’esclusiva del settore della comunicazione, ma in un contesto che dice di sé quanta attenzione rivolge alle parole che usa, credo valga la pena fare qualche considerazione e soffermarsi proprio sui significati intrinseci di quanto utilizza come fosse zucchero a velo sparso su una torta o un fondotinta per truccare la realtà che spesso è meno attraente di quanto sembra.
Fra i tanti termini che meritano un appunto, segnalo soprattutto “strategia”, spesso utilizzato anche in lingua inglese (pare che strategy faccia fatturare di più, soprattutto in Italia!). Rappresenta plasticamente l’inadeguatezza, o perlomeno l’inopportunità, dell’uso che troppo spesso si fa di parole prese a prestito da ambiti che dovrebbero essere fonte di riflessione critica anziché di ispirazione. Se cerchiamo il significato di “strategia” troviamo che va inteso come “..branca dell’arte militare che regola e coordina le varie operazioni belliche in vista dello scopo finale della guerra: in senso più ampio, l’arte o la scienza che ha per scopo l’utilizzazione del potenziale bellico di un paese nel modo più efficace e produttivo ai fini della vittoria”. Dopo questa definizione leggiamo anche l’indicazione che “oggi è comunemente usato per definire un piano d’azione di lungo termine per impostare e coordinare azioni tese a raggiungere scopi od obiettivi predeterminati in vari ambiti”. Le conosciamo tutti queste due descrizioni. Almeno spero. Ma la seconda indica un utilizzo che deriva dalla prima.
La questione per cui ritengo necessario fare una seria riflessione sull’uso di questo termine da parte di persone non impegnate in azioni di guerra (che sarebbero comunque deplorevoli) è che denota dal punto di vista psicologico, più o meno consapevole, l’atteggiamento di una “personalità” che intende prevalere sugli altri o comunque prevaricare e abusare del proprio potere (quale che sia) o della propria posizione per ottenere vantaggi personali. Utilizzare una strategia -studiata a tavolino o elaborata mentalmente- per raggiungere uno scopo insomma, delinea comunque la volontà di analizzare e attuare un comportamento orientato a forzare e modificare non la propria scelta (che sarebbe accettabile e addirittura definibile come autoanalisi), ma quella di coloro che saranno oggetto della “strategia”!
Chi fa questo tipo di pensiero ragiona come farebbe un militare che volesse aggirare le difese “nemiche”, ma chi lo fa nel mondo della comunicazione addirittura studia e frequenta corsi per imparare a farlo sempre meglio. Il cliente viene quindi oggettivamente considerato un nemico da vincere. E tutte le azioni, che conseguono a questa considerazione, diventano attività determinate per sfiancare le capacità di difesa di chi, in stato di pace, non verrebbe neppure considerato degno di attenzione. Nel mondo della comunicazione commerciale ci troviamo quindi davanti ad un comportamento cinico che non considera, come dovrebbe essere in situazioni di normale umanità, le reali esigenze di una platea, ma le scavalca imponendo le proprie e lo fa adottando “strategie di sfondamento” agevolate dal suo tipico e caratteristico potere di amplificazione, ripetizione e costanza. La persuasione, quando si verifica, diventa quindi il risultato di un percorso guidato verso una direzione prefissata da una strategia che tiene conto delle esigenze dello “stratega”. Una “vittoria” spesso definita “successo commerciale” che si manifesta con la banale vendita di un prodotto a persone che non l’avrebbero comprato. Vittorie che, viste lateralmente si concretizzano in una forma di questua mascherata. Strategie messe in atto per entrare, alla fine, in possesso di denaro dando in cambio qualcosa che vale meno del denaro ottenuto. Il Re è nudo.
Ritengo che il concetto di “strategia” sia etico esclusivamente in quegli ambiti che socialmente lo richiedono, come quello medico o quello legale. Lasciamo altrimenti certi termini ai militari e auguriamoci che non debbano mai utilizzarli neppure loro.
Pietro Greppi
Consulente per l’etica in comunicazione e fondatore di Scarp de’ tenis