11/05/2015
Secondo la mia personale e professionale visione dell’etica applicata alla comunicazione, anche produrre e dire cose stupide non è etico perché manca di rispetto a tutti, inclusi gli autori (la spiazzante logica dello stupido è ben descritta da Mario Cipolla in “Allegro ma non troppo” – Ed. Sellerio). E di cose stupide ahimè se ne vedono tante. Tutto sta nel riconoscerle, ma è difficile separarle dalle persone che gli hanno dato vita. Sono un tutt’uno indissolubile. Nel caso di una pubblicità, o di una qualunque altra forma di comunicazione stupida, questo tutt’uno diventa un’ameba che avvolge in sé -inspiegabilmente- anche tutti coloro che ne approvano la realizzazione e la diffusione. E quando questo accade, l’ameba ha purtroppo il potere di inglobare in sé anche coloro che ne assorbono lo squallore, cosicché la stupidità di origine invade la Marca e la sua reputazione. Eppure accade perché dipende dalle persone. La dimensione delle cose inspiegabili e stupide che popolano la comunicazione commerciale, è palese se la si osserva lateralmente. Per esempio, quando una Marca insiste nello strumentalizzare i bambini, o il corpo e il genere femminile (è di questi giorni la contestazione allo spot di Prada) o nell’affermare le proprie caratteristiche in una lingua che non è quella del Paese in cui viene diffusa. Come pretende di essere accettata o capita? Io, sarò strano, ma se non capisco non compro e se comprassi senza capire sarei uno stupido. Studiamola questa cosa.
Nel nostro Paese è presente un enorme analfabetismo di ritorno. Cito da Repubblica del 29 marzo 2013: ”Tullio De Mauro, lo studioso che più di tutti ha fatto della battaglia all’analfabetismo una missione civile e culturale denuncia sulla rivista Il Mulino: «Nel nostro paese, ai residui massicci di mancata scolarità si sommano fenomeni di de-alfabetizzazione propri delle società ricche»… «Solo una percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi nella società contemporanea, nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi». Un grave deficit che è anche un limite nell’esercizio di cittadinanza, e dunque un temibile avversario per la democrazia, inspiegabilmente ignorato dalle nostre classi dirigenti. Quando non viene cavalcato con lucido discernimento.” Cosa c’entra tutto questo, direte, con la pubblicità e con l’etica? Non so come spiegarlo meglio se non chiedendovi di rifletterci, perché le persone che popolano il sistema della comunicazione devono considerarsi in un certo senso “una classe dirigente” che si deve responsabilizzare.
Con chi parla la vostra pubblicità quando costringe a chiedersi cosa significa quello che si è appena visto? Cosa capisce colui che ci ascolta? State approfittando delle sue ingenuità? Perché? State costruendo qualcosa di utile per la Marca e per le persone a cui vi rivolgete? Chiedetevelo ogni tanto. La pubblicità che “si autostima” senza motivo nasconde un gruppo di persone che fa la stessa cosa
e questo è stupido, pericoloso e controproducente anche per la Marca. Come accennato nel mio articolo “Fiori di plastica” sarebbe auspicabile che chi produce contenuti e progetta iniziative usando le risorse di un’azienda agisse per costruire una forte reputazione, riconosciuta e riconoscibile, ma per riuscirci dovrebbe “convertire” il suo pensiero alle cose utili. Un esempio, tra i tanti, da cui trarre ispirazione per farlo? Ancora una citazione: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire” (Marguerite Yourcenar).
I paradigmi della comunicazione commerciale li conosciamo molto bene, ma la dichiarata necessità (tutta da dimostrare) di stupire, involontariamente delega solo ai creativi la responsabilità di “inventarsi qualche cosa”. Ma non è garantito che la fantasia produca sempre cose di buon senso o almeno coerenti con il mestiere e con il prodotto. Possiamo guadagnare tutti ugualmente evitando di fare cose stupide e usando le risorse che ci vengono affidate per realizzare e comunicare cose che durano e di cui ci potremo sentire orgogliosi. Noi e la Marca. Fra due lunedì parliamo di Expo.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis