28/03/2022
Bastano tre semplici parole per smontare il senso di quasi tutte le forme di pubblicità. Parole che non dico io, ma le persone più semplici. Quelle che i pubblicitari e chi “studia per diventarlo” definiscono “target”. Le tre parole compongono una frase brevissima, che suona come affermazione, ed è: “È solo pubblicità!”. Una frase diffusa. Tre parole con cui, fra amici o in famiglia, capita di commentare spot, frasi e immagini delle confezioni dei prodotti, manifesti… Gli addetti ai lavori dovrebbero tenerne conto sempre più seriamente e considerarlo un nuovo punto di osservazione, diverso dal solito e su cui riflettere.
Una frase semplice, che verrebbe da definire quasi una saggezza popolare, che contiene un mondo di significati ed è, una volta tanto, un effetto collaterale di quelli subìti dal comparto anziché prodotti nel pubblico. Credo che sia capitato a tutti di sentirla, almeno una volta, e a molti di pronunciarla, e spero siamo anche tutti d’accordo nell’ammettere che il suo significato implicito sia traducibile per esteso in qualcosa del tipo “… non ci crederai mica!? È solo pubblicità…”.
Ora non serve fare tante ricerche motivazionali, scomodare sociologi o esperti di media e comunicazione per interpretare cosa questo significhi in termini pratici. Basta avere, nel comparto, il coraggio di fare autocritica. Se una frase così circola, significa che nel tempo, almeno in una certa parte del pubblico, la pubblicità si è formata una reputazione poco lusinghiera. Quelle tre parole sottintendono che chi le pronuncia la ritiene eccessiva, bugiarda, poco credibile. Una ricaduta negativa di non poco conto se si considera quante risorse economiche vengono assorbite dal sistema che produce a se stesso questo effetto. Si tratta senza dubbio della conseguenza di tutte le esagerazioni che la pubblicità è abituata a mettere in scena, ma che, quando intercetta persone più riflessive di altre, le ricadono addosso come un boomerang, perdendo di fatto in credibilità con tutto ciò che ne consegue. Certi professionisti della comunicazione ritengono che le iperboli allestite da certi creativi per “fare spettacolo intorno ad un prodotto”, siano percepite come tali anche dal pubblico. Sono evidentemente convinti che, dalla pubblicità, le persone si aspettino una certa dose di eccesso (ma perché?) e che ne sappiano percepire i confini, sapendoli leggere, riconoscere, identificare. Pensano che tutto il pubblico sia capace di scremare razionalmente dallo spettacolo la parte più vicina alla realtà che può aspettarsi dal prodotto. Invece non solo le cose non stanno così, ma è anche evidente che ormai i creativi, negli anni, si sono fatti prendere la mano. Anziché togliere aggiungono (qualcuno sulla questione del togliere ci ha già individuato un modo per differenziarsi, ma in sostanza senza produrre veri cambiamenti se non solo appunto quantitativi), cosicché la dose di artifici e di iperboli presenti negli spot (e sulle confezioni) ha in molti casi affogato, soffocato, confuso la vera sostanza dei prodotti di cui risulta ormai difficile cogliere la semplice essenza. Le passate di pomodoro non parlano; gli yogurt non fanno l’amore; qualunque auto raramente trova spazi deserti; le scatolette sono scatolette; tutte le merendine ingrassano; l’alcool non rende migliori né bevendolo, né spruzzandoselo addosso; le bottiglie, le scatole e i vasetti non sono il prodotto, ma solo dei contenitori; non ci sono animali felici di finire nel tuo piatto; il testimonial è pagato per dire certe cose… E poi neanche gli sconti dichiarati e non richiesti sono momenti di verità. Anzi è sempre più frequente che un prezzo venga dichiarato scontato anche quando non lo è per nulla. È solo pubblicità. Ma se fosse pensata seriamente con paradigmi socialmente responsabili (e non solo a parole), potrebbe conquistarsi la dignità di “cosa utile” alle persone senza dover ricorrere al tanto agognato “preciso posizionamento”.
Il mio impegno riguarda in modo, spero evidente, la visione critica di certa comunicazione commerciale e degli effetti negativi che produce anche a sé stessa. Per aziende e agenzie dovrebbe essere naturale riflettere su questi punti e comprendere il perché sia necessario un rinascimento della professione dei comunicatori. Provate a pensarci seriamente. E parliamone affinché si possa mettere almeno un punto interrogativo alla frase: “È solo pubblicità”
Pietro Greppi
ethic advisor e fondatore di Scarp de tenis