16/05/2022
Washing. Cioè? Se dai un nome alle “cose” è per identificarle in modo più preciso quando le incontri, per riconoscerle, farle riconoscere e condividerne le relative osservazioni. Dare un nome è in sostanza un obiettivo di comunicazione tramite una sintesi. Come greenwashing. Ma da dove arriva il termine greenwashing? È una “sincrasi” fra green (verde, colore simbolo dell’ecologismo) e washing (lavare) che richiama il verbo to whitewash (imbiancare e per estensione “nascondere”). In italiano è traducibile con “darsi una patina di credibilità ambientale“. Nel 1986 l’ambientalista statunitense Jay Westerveld, lo impiega -pare la prima volta- per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a limitare l’uso di asciugamani, sebbene tale invito avesse invece una motivazione di tipo economico. Negli anni novanta si verifica poi un più diffuso ricorso alla pratica identificata come greenwashing da parte di imprese che intercettano l’attenzione dei consumatori sui temi della tutela dell’ambiente e dell’impatto ambientale sulle decisioni di acquisto e consumo. Da quel periodo in avanti si diffonde una certa (insopportabile) abitudine a nascondere la verità intorno alle attività di aziende e/o alla produzione di determinati prodotti usando una strategia comunicativa che ne definisce green solo una singola caratteristica pseudogreen e spesso marginale, sorvolando sui reali impatti ambientali creati da altri fattori (provenienza, produzione, uso degli scarti). Tale pratica -ormai molto utilizzata- non rappresenta propriamente la diffusione di un messaggio falso, bensì il tentativo di descrivere come ecologici prodotti/aziende che di fatto non lo sono. Da una recente indagine si apprende che viene utilizzata nel 73% dei casi analizzati in USA e nel 98% in Inghilterra. Il mondo è piccolo e questa pratica si è diffusa quasi come un “modello strategico” per manipolare la credulità dei consumatori. Quindi deprecabile a priori. Gli addetti alla comunicazione di agenzie e aziende la mettono in atto con destrezza usando modalità sempre più vergognosamente raffinate. Per esempio: non dimostrando in modo trasparente le qualità dichiarate; usando parole o immagini che danno l’impressione (solo l’impressione) ci sia un certificato di terze parti che attesta quel che viene affermato; mentendo con colpevole leggerezza sulle certificazioni; restando sul vago usando affermazioni poco chiare e quindi equivocabili da parte del consumatore; distogliendo l’attenzione vantando una caratteristica del prodotto che non risolve l’impatto ambientale come -per esempio- quando si concentra l’attenzione sul tabacco biologico (!); enfatizzando caratteristiche “green” inutili e irrilevanti ai fini di una scelta consapevole. Questi approcci comunicativi evidenziano che le agenzie (certo non tutte tutte, ma molte molte) non agiscono come potrebbero e dovrebbero in veste di stimolatori di azioni oneste, concrete e verificabili, bensì come meri esecutori -ormai pseudo-creativi- di quanto richiesto dai loro clienti che, con molta probabilità, hanno invece altri obiettivi… due in particolare, entrambi imbarazzanti per il settore della comunicazione come per le aziende stesse: illudere i clienti che “loro” (le aziende o le marche che le contraddistinguono) sono attente al “tema del momento” e scaricare i costi (investimenti?) generati dalle attività di divulgazione del “contenuti” elaborati dalle agenzie. Ho usato il termine “tema del momento”, perché ormai il “washing” è diventata una diffusa pratica di cui washing è diventato solo un suffisso applicato ai più diversi contesti dove le bugie vengono vestite da verità per ammansire i consumatori (o il pubblico in generale) cercando di rassicurarli su un tema “a loro caro”. Ma l’appropriarsi indebitamente di virtù e qualità per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono in realtà l’ambiente e la salute, non viene “messo in crisi” solo da un suffisso diffuso dai media. Se washing venisse invece “usato e letto” con più determinazione come monito e diventasse motivo di disprezzo di chi lo pratica, allora sarebbe più facile indurre “gli abitanti” di aziende e agenzie a ricostruire il proprio dna riscrivendo i paradigmi di un sistema che ha creato mostri, che generano mostri a catena… basta guardarsi intorno.
Pietro Greppi
ethic advisor e fondatore di Scarp de’ tenis