16/07/2018
“A che gioco giochiamo?” Ci chiedevamo da piccoli per stare insieme e divertirci, facendo cose di fantasia, sognando di essere chi ci pareva, “… a che gioco giochiamo?” … e il divertimento prendeva le forme che ci venivano al momento … quelle già conosciute o quelle nate all’improvviso dalla nostra immaginazione. “Facciamo che tu eri … e io allora …” Giocare: un modo per imparare a costruire, inventare usando la nostra libera creatività istintuale e con questa riempirci di quell’allegria che da genitori, nonni e zii responsabili e consapevoli rinnoviamo con i nostri figli e i figli dei loro figli.
L’atto del gioco deve restare “un luogo di apertura della mente” che non può condividere neppure una sillaba con quello che oggi viene definito allo stesso modo, ma che produce drammi familiari, illusioni e dipendenza patologica … lo chiamano gioco d’azzardo e chi non riesce a smettere di giocare a quel gioco viene definito ludopatico. Ma il gioco, quello sano al di là di ogni retorica, forma la personalità, allena le capacità relazionali, stimola la mente … e non è basato sul denaro o sull’idea di fare fortuna. Quando usi il denaro non più un gioco, ma solo una sua imitazione, addomesticata da un sistema permeato da forme di “economia irrazionale” o di commercio travestito … modelli alieni al concetto di gioco che si insinuano (vengono insinuati) da chi colpevolmente decide di usare la sua conoscenza di certe debolezze umane per trarne un profitto indegno. Definire ludopatia quella che dovrebbe essere invece ribattezzata azzardopatia è pericoloso anche semanticamente, perché attraverso una sostituzione di termini e lo stravolgimento dei significati si cerca di alleggerire e deviare l’attenzione da una cosa pesante e pericolosa cercando di introdurne la “fisionomia” nel quotidiano e cercando di farla assomigliare a qualcosa di innocente e spensierato come il gioco. Ogni forma di azzardo è quindi molto azzardato profilarla come fosse un gioco, e chiamare ludopatia la dipendenza dal gioco, oltre ad un’aggressione ai significati è anche una chiara dimostrazione della colpevole superficialità con cui si cercano di definire le drammatiche conseguenze sociali prodotte dall’azzardo. Se esistono persone mentalmente, culturalmente, caratterialmente deboli e non attrezzate per opporsi alle sirene dell’azzardo è socialmente irresponsabile lasciare che altre persone possano accedere a strumenti di seduzione delle loro menti. “Fare cassa” su chi sogna il “colpo di fortuna”, qualunque sia il destino della cassa, è irresponsabile, fraudolento e criminale. La liceità di consentire di fare “impresa” per questioni di liberismo, possiamo anche accettarla, ma indipendentemente dal colore dell’iniziativa che impedirà di fare pubblicità al gioco d’azzardo, possiamo solo dire che è meglio tardi che mai. Perché se intendi approfittare della fragilità di qualcuno allora è accettabile che lo Stato si faccia scudo e ti consenta sì di farlo (per non passare da censore), ma è però sacrosanto e direi pure doveroso che ti metta ogni ostacolo possibile per impedirti di trasformare il tuo invito all’azzardo in qualcosa che possa essere “dipinto” dalla pubblicità come la rincorsa di un sogno possibile. L’advertising (con tutti i suoi pro e contro) è uno strumento che riesce a rendere spesso efficaci gli intenti seduttivi anche del prodotto più insulso … cosa, questa, che meriterebbe sempre un’analisi sociologica da cui derivarne il giudizio di opportunità, affinché si possa concederne l’uso con le attenzioni e le limitazioni che si devono quando si gestisce un’arma capace di offendere.
Se poi lo Stato ritiene di dover attingere alle risorse personali dei cittadini oltre a quanto fa già abbondantemente, che lo faccia consentendo la detrazione di ogni (ogni) “donazione” richiesta e fatta con scopi dichiarati, trasparenti, resocontati e raccontati. E incarichi pure di gestire queste forme di “questua statale” i dirigenti che crede … compresi gli attuali … dopo averli però formati eticamente. Con certe cose non si scherza … e non si gioca.
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis