04/02/2019
Come tutte le mode anche quella dello storytelling (raccontare storie) comincia a fare meno rumore. Forse perché le storie bisogna saperle raccontare. E anche perché devi averla una storia altrimenti cosa storytelli cosa?
Eppure, fra tutte le mode effimere che si manifestano nell’adv, quella dell’aver “scoperto” che un racconto lascia più tracce nella memoria che non altri schemi (perché di schemi si tratta) sarebbe da tenere come riferimento da cui partire per sviluppare qualcosa che sia finalmente utile, tanto alla marca quanto ai suoi spettatori. Sarebbe più socialmente utile. Il problema è che non ci si sofferma mai abbastanza sui significati e sul senso delle cose che vengono architettate per “emergere” nel mare mosso della pubblicità di oggi. In fondo raccontarsi per raccontarsi è un esercizio che riesce, più o meno bene, a tutti. Ma è lo spessore di quello che racconti che fa la differenza. Uno spessore che devi possedere per poterlo raccontare e che quindi o te lo costruisci o è meglio che lasci perdere.
Se la tua idea di narrazione ha ancora come obiettivo il dire, seppure in modo diverso, quello che hai sempre fatto … allora non ha senso che ti ci cimenti se non per poter dimostrare che hai usato anche tu quel nuovo modello di relazione. Se invece decidi (tu azienda e tu agenzia che la consigli) di cambiare i paradigmi che ti muovono, se riesci a renderti conto che le persone cui ti rivolgi, oggi più di ieri desiderano capire se sei sensibile alle esigenze reali della loro comunità. Se riesci a comprendere che quelle esigenze non sono per nulla risolte dai tuoi prodotti e che quindi la tua missione aziendale deve essere diversa … allora il tuo racconto potrebbe parlare di quanto sei cambiato rispetto al passato e che oggi hai deciso di impegnarti a essere presente dove serve con ciò che serve … anche se continui a vendere i prodotti di sempre …
Certo la forma con cui esprimi il tuo contenuto è importante, ma se non porta con sé un valore reale, credibile (e non fittizio o artatamente costruito come accade nella pubblicità classica) allora la forma diventa complice del nulla. Oggi si sente il bisogno di sostanza, di umanità, di sociale inteso come “di e per tutta la comunità”. Ma fino a che le aziende utilizzeranno ogni “innovazione” pensando solo al profitto “a breve” e senza considerare seriamente che quel profitto deriva dalla “questua mascherata da commercio” (ormai fatta senza alcuna dignità o imbarazzo) e senza considerare quindi che il fatturato di un’azienda deriva solo ed unicamente dai clienti di cui è nei fatti dipendente … allora le aziende troveranno sempre più faticoso giustificare la loro esistenza. Quello che “frega” l’adv di oggi (meglio dire “le persone che producono i contenuti adv”) è che, con qualunque modalità innovativa cerchi di presentare i propri clienti, tenta sempre di affiancare la marca e i suoi prodotti a dei sentimenti o a delle emozioni … cosa che sarebbe anche interessante se solo la marca o un suo prodotto agissero davvero in quel senso. Invece no … l’adv continua (9 su 10) ad usare le emozioni appiccicandosele forzatamente al bavero senza fare nulla per essere davvero partecipe a emozioni e necessità del pubblico cui si rivolge. Quando lo fa si dimentica di dirlo … o lo dice in contesti e contenitori che non ti arrivano con la stessa frequenza dell’adv, per cui il racconto che resta è quello meno rilevante.
Qualcuno sta facendo cose interessanti, ma lo trovi con il lanternino e si muove temendo di non essere capito o approvato. Personalmente quoterei tutta la vita documentari di attività utili al posto di spot melensi e irreali. Lo storytelling dovrebbe diventare cioè l’opportunità di creare una conversazione profonda con chi vuoi che ti segua. Altrimenti cosa storytelli cosa?
Servono esempi da imitare per poterli imitare e creare una catena dove noi stessi si sia d’esempio.
(Una nota a margine: apprendo che sul tema del “sociale come leva del marketing” si è “buttato a pesce” anche quel simpaticone di Kotler … in notevole ritardo rispetto ai molti che “ sul pezzo” ci sono da anni, ma che hanno meno visibilità di lui).
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis