24/02/2020
“Un’immagine vale più di mille parole”. È un modo di dire suggestivo e ormai talmente diffuso che quasi nessuno pensa di fare obiezioni in merito al suo senso. E si continua a ripeterlo come fosse un assioma universale. Eppure, se un’immagine vale più di mille parole, allora rischia anche di essere interpretata in più di mille modi, perché le immagini prendono un significato in funzione di chi le guarda e in relazione alla sua cultura. E quando la cultura di chi propone un’immagine non è la medesima di chi quell’immagine la osserva, la conseguenza di questo “incontro” produce come minimo dei malintesi. Ed è ciò che accade quotidianamente a cura di chi, soprattutto nel mondo della comunicazione commerciale, usa in modo superficiale e sedicentemente creativo, combinazioni di immagini come personale scorciatoia per evitare di impegnarsi in argomentazioni verbali. Si pensi, estremizzando, a quali possano essere i “motivi emotivi” che spingono certe culture ad attribuire, alla costruzione di immagini, l’importanza che conduce alla venerazione di miti o, al contrario, al divieto di riprodurre immagini di esseri viventi. E si pensi, in merito a questo, al significato che il semplice acquisto di un’opera d’arte può rappresentare per Paesi interi: “… ma se l’Islam vieta le figura umane, come mai non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore” locale – come è successo a Gisele Bundchen qualche anno fa? E se il divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”?…” (dall’articolo del 4 giugno 2018 de L’Espresso “Ma se l’Islam vieta le immagini perché un Leonardo è finito in Arabia?” di Angiola Codacci-Pisanelli).
Ma anche senza scomodare troppi significati attinenti credenze e religioni, in certi “divieti orientali” vi è tuttavia una certa forma di saggezza e di consapevolezza della fragilità e del condizionamento della mente umana che il mondo globalizzato, altrettanto consapevolmente ignora, andando incontro a quello che potremmo chiamare “un forte rischio di idolatria”. E questo è vero soprattutto oggi che il mondo è diventato così “liquido” da dare origine ad un’inevitabile mescolanza di diverse sensibilità. Senza immagini e rappresentazioni artificiali di esseri viventi, non c’è infatti il rischio che qualcuno finisca per “venerare il vitello d’oro invece del vero Dio”. E in questa metafora i vitelli d’oro sono diventati i marchi, con le immagini da loro diffuse per attirare le deboli menti di chi, comprandoli, crede ancora oggi di poterne assimilare il comunque inesistente, artificiale e artefatto valore. Le immagini intendono “spiegare” sostituendosi alle parole, ma ciò non esclude che anche le immagini possano ingannare se, per esempio, chi le utilizza aveva tale intenzione.
Se in tempi ormai remoti quindi, erano le immagini che potevano sopperire alla diffusa mancanza di alfabetizzazione per trasmettere messaggi, oggi il loro uso inutilmente esasperato, e per certi versi squinternato e strumentale, rischia di far arretrare le faticose conquiste culturali di intere popolazioni, vanificandone gli investimenti fatti per formare coscienze indipendenti, consapevoli, responsabili e libere. Non bastassero le analisi sul livello di analfabetismo in cui pare siano incredibilmente piombate intere generazioni, almeno l’evidenza di certe derive testimoniate dai nuovi media dovrebbe convincerci che potrebbe essere arrivato il momento di tornare ad un più diffuso utilizzo consapevole del verbo. Ma a patto che si riesca a ricostruire e a restituire il significato esatto delle parole coniate per esprimere precisi significati, senza dover ricorrere a immagini di comodo per definirle. Così come ogni ostacolo che ci si presenti induce nuove abilità per aggirarlo, autoimporsi di usare più parole, in sostituzione delle immagini, potrebbe aiutare ad approfondire e ritrovare le qualità formative e comunicative del verbo e accrescere le capacità intellettive individuali di ognuno. Immaginarsi le parole potrebbe essere allora la via di un recupero di civiltà.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis