20/09/2021
Quando una medicina non fa effetto pensiamo a due cose: o non è la medicina giusta o la dose va aumentata. Che è un po’ ciò che accade in sostanza anche nel caso in cui una pubblicità non ottiene i risultati attesi. Se “non ha funzionato” se ne analizzano i motivi, agendo appunto come se la pubblicità fosse un farmaco, un ricostituente, una vitamina per l’azienda che se ne serve. E qui cominciano a generarsi gli involontari conflitti d’interesse, tipici del settore, … tutte cose che non guariscono il malato (la marca). I tentativi di metterci una toppa diventano spesso maldestri o addirittura irrazionali e comunque sempre molto costosi per le aziende che incredibilmente subiscono “cure” che andrebbero evitate. La carenza di autocritica, male curabile, consente la propagazione e l’amplificazione dei peccati originali del mestiere: miopia, superficialità, ingordigia, supponenza, presunzione creativa, indifferenza agli effetti collaterali. Ciò accade perché chi si pone le domande e chi vi risponde, sono gli stessi che precedentemente hanno approvato o pensato quella comunicazione e quindi somministrato quel “farmaco”. Una prova fresca fresca? Un certo numero di aziende, proprio ora, non solo non hanno abbandonato la discutibile, inutilmente costosa e imbarazzante “ideona” del ricorso al testimonial famoso, ma sono passate addirittura al raddoppio. E impressiona e fa riflettere che non si tratti di un caso isolato. Coppie di attori assunti per prodotti da forno, doppie coppie di sportivi per shampoo, coppie di comici per materassi e telefonia … e in alcuni casi anche il ricorso al “rafforzo” della coppia con l’inserimento di un ulteriore “famoso”. Quale ragionamento logico abbiano seguito i responsabili coinvolti in queste scelte non è consigliabile chiederlo: l’arte della retorica fornisce sempre una risposta anche alle domande più scomode, soprattutto nel settore della comunicazione che, oltre al raddoppio del testimonial, tende al raddoppio della dose di somministrazione attraverso una pianificazione ancora più insistente. Guai a chiedere se qualcuno si sia posto la domanda se il rimedio non sia anche peggio del male. Nel veneto il concetto viene espresso dicendo “peso el tacon del buso” (peggio la toppa del buco). Scelte che stupisce siano fatte da professionisti anche molto presenti e anche apprezzati nel settore, ma che definirei molto parziali e gravati oggettivamente da qualche limite, perché conoscono e riproducono benissimo un metodo, sempre quello, da anni e con ogni mezzo disponibile -classico o moderno che sia- e lo ripropongono quasi in fotocopia, come un DJ che sa che musica “mettere” tutte le volte che “vuole” si balli. Certe scelte, come certi “farmaci”, non andrebbero proprio prese, Si dovrebbe ricorrere al buonsenso evitando il più possibile rimedi artificiali. Essere vicini alle persone rischia altrimenti di tradursi in una molestia. La crisi di cui tanto si parla è prima di tutto una crisi di valori. Una nebbia scesa davanti alle coscienze che impedisce di veder chiaro chi e cosa ci sia davanti ad ognuno di noi. L’idea di difendere sempre e solo i propri interessi sa di egoismo, di esclusione e porta a pensare e ad agire anche contro altri. Crea caste, separazioni, dislivelli, disuguaglianze, insensibilità, … insomma roba brutta, aggettivo forse troppo semplice, ma molto chiaro. Meglio quando si discute e si agisce per garantire esigenze comuni, inclusive, che riguardano quello che c’è, e soprattutto quello che serve, che sia ben distribuito e, in caso contrario, si provveda a mettere in pari le situazioni che non lo sono. E questo è semplicemente bello e in deciso contrasto con chi pensa in modo “guicciardinesco” solo al proprio particolare. La pubblicità può fare molto per il sistema Paese. Ma dipende dai pubblicitari che la governano, ma che oggi appaiono oggettivamente sempre più confusi e inadeguati a cogliere e suggerire seriamente nuovi paradigmi sociali per le aziende che seguono.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis