13/01/2020
Adesso è il momento dell’empatia. Da un po’ di tempo infatti, dopo i vari “purpose” di turno, coloro che cercano di inventarsi qualcosa a tutti i costi pur di far funzionare la loro impresa o quella del loro cliente, stanno mettendo sul tavolo la questione dell’empatia come metodo potenzialmente efficace per migliorare il rendimento generale. Detta così, senza rifletterci su, potrebbe essere anche una buona cosa. Non fosse che l’empatia è una questione controversa, delicata e anche fraintesa. Una questione che non puoi pensare di usare come fosse un’app schiacciando un bottone che allora parte. L’empatia o ce l’hai o no e anzi, se non ce l’hai ce l’hai lo stesso … solo che è negativa. Nella vita sociale l’empatia ha senza dubbio un valore ed è importante che se ne parli e la si illustri come evidenza di sensibilizzazione verso l’altro. Tuttavia, chi oggi parla di empatia nelle imprese lo fa purtroppo come altri con ogni nuova parola che risuona nei salotti della comunicazione da chi intende governare e dirigere un sistema basato su obiettivi prioritariamente commerciali inserendovi, di quando in quando, qualche richiamo ad una cultura umanista … ma si capisce che lo fa per un calcolo e un fine che con l’empatia non ha nulla da spartire, perché l’empatia se applicata alla produttività è un falso valore. Diventa subito un sorriso impostato per mestiere. Perché se lo scopo di assumere atteggiamenti empatici –sempre che si possano applicare a comando- ha come obiettivo migliorare i risultati di un’azienda, allora significa che questo prezioso sentimento viene forzato e strumentalizzato a fini speculativi. E questo è deplorevole come qualunque altra “strategia”. Diverso e ben accolto sarebbe se i corsi di formazione tecnici venissero bilanciati da un ripasso sul valore del lato umano del lavoro, ma scollegandolo dal concetto di produzione e parlandone come si parla della nostra Costituzione, per ricordarne l’esistenza, per riconoscerne il valore e per riflettere sui suoi risvolti. Così come un recupero di umanesimo è necessario nel mondo della comunicazione commerciale, anche dentro le aziende (a tutti i livelli) è altrettanto importante che questa e altre sensibilità vengano coltivate, protette, evidenziate. Ma l’empatia, se proprio la si vuole tirare in ballo, la deve idealmente avere l’impresa verso chi lavora per essa. Significa quindi che sono le persone che rappresentano la proprietà e la dirigenza che dovrebbero essere così “avanti” nel pensiero da modulare i propri obiettivi con attività che intervengano sulla socialità. Mi spiego: ultimamente si sente parlare di imprenditori che offrono dividendi, azioni e incentivi vari ai propri dipendenti. Bello, ma questo modifica solo la capacità di spesa nella società, che però resta così com’è. Se invece l’azienda investisse più in beni socialmente utili e meno in spot, in servizi sociali per la vita esterna all’azienda, questo si tradurrebbe per l’intera comunità in una minor necessità di spendere. Se costruisci un asilo e lo mantieni efficiente e lo offri gratuitamente ecco che quella spesa diventa un investimento che rientra in circolo e diventa una sorta di energia rinnovabile per la comunità che ne usufruisce. Per far star bene le persone serve il rispetto dell’individuo e la distribuzione di servizi pagabili con parte dei margini delle imprese affinché la crescita si traduca in bene comune. È quindi certamente preferibile che chi dirige aziende o agenzie di comunicazione sia dotato di quell’empatia positiva che gli consente di offrire attenzione alle altre persone, cogliendone i sentimenti, le emozioni e gli stati d’animo per andare loro incontro. Ma guai se questo dovesse diventare uno stratagemma per ottenere di più dagli altri. Guai. Per contro l’empatia negativa (o dispatia) è quella di chi non riesce a entrare in sintonia con chi gli è prossimo, considerandolo totalmente estraneo, non permettendo un confronto fra sé e l’altro. Però è meglio avere a che fare con una trasparente dispatia che con una falsa empatia e che ognuno di noi sappia riconoscere l’una e l’altra dentro e fuori di sé.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis