16/05/2016
Per rispondere ai colleghi che dubitano del fatto che certa pubblicità produca effetti collaterali dannosi dal punto di vista sociale, dico che esistono le prove di quanto affermo.
Una di queste è la pubblicità stessa. Quella di oggi, di questi anni. Non tutta ovviamente, ma molta, troppa perché non sia classificabile come l’effetto collaterale di sé stessa.
Osservazioni, è il caso di chiarire, che non sono rivolte contro “il fare pubblicità”, ma contro chi la pubblicità la pensa e la produce senza riflettere né sulle conseguenze, né sulle proprie responsabilità sociali. Fra questi ovviamente anche le aziende che licenziano campagne quando in molti casi dovrebbero, anche per tutelare sé stesse, licenziare sì, ma in un altro senso.
Credo sia necessaria una presa di coscienza generale che – ritengo – possa partire da una riflessione: le qualità delle persone che, per esempio, hanno ricostruito il nostro Paese dopo la guerra, sono ancora presenti nelle persone che ne hanno ereditato il risultato d’insieme? Le qualità di pensiero degli imprenditori e degli uomini di Stato, che solo 70 anni fa hanno pensato e realizzato strutture, istituzioni e la nostra Costituzione, sono ancora rintracciabili in qualcuno oggi? Certo che sì ma fanno evidentemente fatica a manifestarsi.
La pubblicità c’entra, non sto andando fuori tema, perché tutto è collegato e ritengo che, per cercare di capire cosa sia successo al nostro Paese, sia necessario individuare il punto e il momento in cui – in ogni settore – si è “rotto” qualcosa. Perché non c’è dubbio ci sia stato quel momento. Anche nella pubblicità. E non è questione di pensare positivo … magari bastasse!
Sono almeno 20 anni che il cambio generazionale nelle aziende ha dato luogo a sovvertimenti deleteri e a danni che, se si vorrà intervenire, sarà complicato riparare. Soprattutto quando il cambio generazionale ha riguardato gli assetti familiari delle industrie italiane che hanno passato il testimone ai figli. Figli che, anziché guardare il modello concreto e visionario da cui erano generati, hanno cominciato a rivolgere lo sguardo verso modelli artificiali e visioni a corto raggio. Non tutti. L’idea che i giovani siano il futuro è vuota retorica politica e non porta a nulla di concreto se non alla legittimazione dell’idea che i giovani siano solo “da seguire”. Dipende però in che senso! Perché siamo tutti giovani per un periodo, ma quello che conta davvero è ciò che, da giovani, ci attraversa la mente, gli occhi, il cuore … perché inciderà su quanto saremo in grado di pensare, sentire e realizzare. Ci sono persone di tutte le età che vivono in un vuoto pneumatico dal punto di vista culturale. E a questo proposito, per arrivare a descrivere cosa sia successo anche nel mondo della pubblicità, che è un punto nevralgico e sottovalutato -in tutti i sensi- del nostro sistema, mi è venuto involontariamente in aiuto lo scritto di un collega, Fabio Palombo, che ho intercettato su di un social mentre stavo scrivendo questo articolo. La sua osservazione, che riporterò fra virgolette, ricalca in pieno quanto avevo scritto anch’io qualche tempo fa. E siccome fa piacere trovare persone che non ti fanno sentire troppo solo nel giudizio critico di un ambiente che frequenti da anni, gli ho chiesto il consenso per pubblicarlo in questo articolo. Ecco: “conosco pubblicitari, e più sono giovani più ne conosco, che per fare pubblicità, si ispirano quasi esclusivamente ad altra pubblicità. E prima di iniziare a lavorare, l’hanno pure studiata seriamente, e a caro prezzo, la pubblicità. Quando poi finalmente escono dalle agenzie, quando li fanno uscire, succede che frequentino perlopiù persone come loro in posti dove gente come loro si ritrova per parlare il più delle volte di loro stessi. È un circolo vizioso, che ogni anno si chiude sempre di più, escludendo l’unica fonte d’ispirazione possibile per un mestiere come il nostro: la vita che c’è là fuori. Perché – potrà sembrare strano a qualcuno – le shortlist di Cannes, con la vita, non hanno quasi mai nulla a che fare.”
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis
Fondatore del Laboratorio per la realizzazione del Linguaggio universale non verbale